Persona dell’anno

Non solo per Lorenzo: le proteste degli studenti per cambiare l’alternanza

di Chiara Sgreccia   16 dicembre 2022

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Tre coetanei uccisi mentre svolgevano attività ritenute complementari nei programmi di formazione. E contro i quali i ragaazzi si sono mobilitati. Chiedono tutor veri e controlli

Non c’è stato solo Lorenzo. Sono tre gli studenti morti nel 2022 durante i percorsi di formazione che dovrebbero collegare la scuola con il mondo del lavoro. Giuseppe Lenoci, di 16 anni, ha perso la vita a bordo del furgone della ditta di Fermo per cui stava svolgendo lo stage schiantatosi contro un albero, lungo una strada di campagna stretta e mal asfaltata della provincia di Ancona. Giuliano De Seta, 18 anni, è stato schiacciato da un parallelepipedo di acciaio, all’interno di piccola azienda della zona industriale di Noventa di Piave, vicino a Venezia. Sulla dinamica indagini ancora in corso, spiega l’avvocato Luca Sprezzola, legale della famiglia De Seta: «Il lavoro dei periti nell’area sequestrata è iniziato il 9 dicembre. Si ipotizzano inadempienze da parte dell’azienda, in quanto i ragazzi durante gli stage non dovrebbero lavorare ma osservare, imparare, affiancare il tutor. C’è da capire se sono state violate le norme di sicurezza».

Persona dell’anno
Lorenzo Parelli, studente morto di lavoro
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Lorenzo, Giuseppe e Giuliano non hanno potuto scegliere. Ma sono diventati il simbolo della relazione malsana che avvicina l’istruzione al settore occupazionale. «Perché i Pcto non sono scuola, non sono lavoro, sono solo sfruttamento», gridano gli studenti dalle piazze, dalle strade del centro delle principali città del Paese, durante i flash mob di fronte al ministero dell’Istruzione e dagli istituti di nuovo occupati, con una mobilitazione come non si vedeva da anni e che va avanti ancora oggi.

Per ricordare che la morte di tre ragazzi durante l’orario scolastico non è normale, né giustificabile. E che non lo è neanche l’uso della forza con cui sono state represse le manifestazioni. Come è successo a Roma e a Torino dove gli studenti che protestavano contro l’alternanza scuola-lavoro non solo hanno preso le manganellate, «ma in quattro sono ancora, da sette mesi, sottoposti a misure di custodia preventiva nonostante siano incensurati», racconta Irene M., madre di uno di loro, Emiliano: «Sara è agli arresti domiciliari da maggio per aver parlato al megafono. Emiliano e Jacopo dopo essere stati in carcere fino allo scorso 6 giugno, sono chiusi in casa con il braccialetto elettronico e il divieto di contattare chiunque. Anche Francesco, che è stato prima in carcere, oggi è ai domiciliari. L’accusa è di resistenza a pubblico ufficiale, a febbraio ci sarà il processo».

Ma, nonostante la repressione, gli studenti non si sono arresi: «Uno dei cinque pilastri della scuola pubblica che rivendichiamo è proprio la costruzione di una relazione sana tra istruzione e mondo del lavoro», spiega Alice Beccari dell’Unione degli studenti, Uds, il sindacato più grande d’Italia. «I Pcto sono stati pensati come dei progetti didattici. Ma non lo sono». Sono nati per integrare la formazione tradizionale in aula con l’esperienza in azienda, all’interno di enti pubblici o privati, con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’apprendimento, offrire agli studenti le competenze trasversali necessarie per cogliere le opportunità della società. Si chiamano così dal 2019, quando con la legge di bilancio l’allora Governo Conte I ha cambiato il nome dell’alternanza, ridefinito alcuni parametri, come il vincolo del monte ore minimo per i licei, gli istituti tecnici e professionali, predisposto le linee guida per la loro attuazione anche in accordo con l’evoluzione degli orientamenti europei.

Ma la volontà di stringere il legame tra scuola e lavoro attraverso una modalità didattica innovativa risale al 2003, quando il governo Berlusconi II con la legge n. 53, disciplinata dal decreto legislativo n. 77/2005, ha dato agli studenti la possibilità di alternare i momenti di formazione in aula con quelli in azienda.

Nel 2010, con Berlusconi di nuovo presidente del Consiglio e Mariastella Gelmini ministra dell’Istruzione, per la prima volta l’alternanza scuola-lavoro è stata definita come un metodo sistematico da introdurre nei piani di studio, per avvicinare i giovani al mondo del lavoro, orientarli e promuovere il successo scolastico. In seguito, è diventata obbligatoria per tutti gli indirizzi della scuola secondaria di secondo grado: nel 2015 con la buona scuola del Governo Renzi, per sottolineare l’importanza di affiancare il sapere al saper fare e con l’obiettivo di rafforzare la partnership con le imprese. Per offrire agli studenti la possibilità di acquisire competenze spendibili nel lavoro.

Il risultato, però, è discutibile. Secondo alcuni, come per Francesca Galdenzi, referente Pcto per l’Istituto di istruzione superiore “P. Cuppari- S. Salvati” di Jesi, i percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento sono uno strumento efficace per collegare istruzione e un settore occupazionale in continua evoluzione. «Le linee guida sono chiare e costituiscono una sfida anche per noi docenti. Non si parla più solo di stage ma ci sono tante altre attività che completano i percorsi per l’orientamento di ciascun allievo, in base al tipo di scuola. Come le visite in azienda o nelle università. Gli incontri con i professionisti di settore, i corsi di formazione su materie specifiche: finanza o l’utilizzo di software, ad esempio. Gli allievi del nostro istituto sono generalmente soddisfatti. Ma visto che altri scendono in piazza perché si sentono sfruttati forse sarebbe necessario maggior controllo, investire più risorse e garantire una formazione qualificata al personale, per fare in modo che i parametri che definiscono i Pcto sulla carta diventino pratica di ogni scuola, non a seconda delle competenze o dell’impegno dei singoli docenti».

Secondo altri, invece, l’ex alternanza ha fatto entrare negli istituti scolastici le stesse dinamiche di sfruttamento e scarsa sicurezza che caratterizzano il settore dell’occupazione. «Comprendiamo l’importanza dell’esperienza pratica ma oggi i Pcto insegnano come diventare parte di un mondo frammentato e precario. Il rischio è che ci si abitui. Mentre la scuola dovrebbe renderci consapevoli dei nostri diritti, darci la possibilità di trasformare la realtà lavorativa attuale, per renderla migliore». Per Beccari una commissione paritetica formata da docenti e studenti dovrebbe concordare gli obiettivi formativi, sulla base delle esigenze di entrambi. Una parte della formazione pratica dovrebbe avvenire nei laboratori scolastici che andrebbero potenziati con più investimenti. L’altra parte all’interno delle aziende che, però, dovrebbero sottoscrivere e rispettare un codice etico. «Per verificare che abbiano i requisiti necessari per essere utili nel percorso di formazione e garantiscano le condizioni di sicurezza adeguate agli studenti, che non dovrebbero in nessun caso entrare a far parte dei processi produttivi. Perché di scuola non si può morire».

E neanche rimanere gravemente feriti. Come è successo lo scorso maggio, a uno studente di 17 anni che si è ustionato a causa di un ritorno di fiamma in un’officina a Merano, durante i Pcto. O a un ragazzo, sempre di 17 anni, che il 4 febbraio 2020 è finito in terapia intensiva dopo essere stato travolto da una cancellata in ferro che stava spostando durante uno stage.

L’elenco è più lungo. Anche se non ci sono dati precisi sul numero degli incidenti che gli studenti hanno vissuto durante i percorsi di formazione in azienda, «il report - avvisa l’Inail - sarà pronto entro un anno». Ma come spiega Franco Natalini, responsabile del servizio di prevenzione e protezione di Pan Eco, azienda marchigiana che si occupa di ambiente, igiene e sicurezza: «I minorenni che si interfacciano per la prima volta con il mondo del lavoro sono soggetti particolarmente a rischio. L’attenzione da porre per garantire la loro sicurezza deve essere altissima. Noi accogliamo da anni i ragazzi durante gli stage perché è un piacere avere a che fare con energie nuove e perché ci offre la possibilità di conoscere giovani che potrebbero trasformarsi in risorse per l’azienda, alla fine del percorso di studi. Ma succede raramente. E gli sforzi necessari per seguire gli studenti sono talvolta superiori ai benefici che traiamo dal loro operato». Come sottolinea Natalini, rendere validi i percorsi che collegano il mondo della scuola a quello del lavoro è fondamentale sia per le aziende, sia per gli studenti. Il punto sta nel capire come strutturare il link: immaginare una scuola che formi lavoratori consapevoli e competenti, in grado di migliorare le condizioni del Paese oppure future vittime di un sistema occupazionale che mostra ogni giorno il suo malfunzionamento.