Editoriale

Sopra e sotto il vuoto

di Marco Damilano   7 maggio 2021

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La Rai lottizzata, la guerra tra i magistrati: quarant’anni dopo la P2, di nuovo trame di palazzo, ma oscure e misere. Segno di un Paese senza partiti e classe dirigente dove resiste solo il monarca repubblicano che abita al Quirinale

Quando i magistrati Gherardo Colombo e Giuliano Turone arrivarono a Palazzo Chigi per incontrare il presidente del Consiglio Arnaldo Forlani furono messi in attesa dal capo di gabinetto. «Ci siamo guardati negli occhi», ricordarono. «Il funzionario che ci riceveva, anche lui era un iscritto». Quarant’anni fa, il 20 maggio 1981, il governo Forlani decise di rendere pubblico l’elenco della loggia massonica P2, scoperto dai due magistrati due mesi prima a Castiglion Fibocchi. Il governo cadde e per la prima volta dal 1945, un mese dopo, la Dc fu costretta a cedere la presidenza del Consiglio all’esponente di un altro partito, il repubblicano Giovanni Spadolini. Un terremoto politico.


«Generali e ammiragli ai suoi ordini. Dossier dei servizi segreti a sua disposizione. Alti burocrati al suo seguito. Banchieri pronti ad aprire le cassaforti. La piramide P2, dopo dieci anni di lavoro, era quasi completata... Ogni mattina, meticoloso e instancabile, il Maestro Venerabile della P2 passava in rassegna i suoi “fratelli”. Quando non aveva tempo per incontrarli, li chiamava al telefono. S’era scelto, per timore di intercettazioni, un nome di fantasia. E si era regalato una laurea. “Sono il dottor Luciani”, si annunciava col suo forte accento toscano. E questo bastava per far scattare al telefono i potenti», ha scritto Maurizio De Luca (scomparso il 5 maggio di sette anni fa), che raccontò per L’Espresso lo scandalo P2. Era la loggia di Licio Gelli l’agenda di quell’Italia e il suo Maestro era, come amava vantarsi, il confessore di quella Repubblica.


La loggia P2 era un crocevia di interessi e di affari, in una paese di frontiera, negli anni tragici delle stragi e del terrorismo. La loggia P2 era una falange grigiastra che occupava trasversalmente le istituzioni, gli apparati dello Stato, la magistratura e l’informazione pubblica e privata: piduisti erano il procuratore capo di Roma, il direttore del Tg1 e il direttore del Corriere della Sera, con tutti i vertici della proprietà dell’epoca. E un giovane arrembante nuovo imprenditore della tv commerciale, all’epoca pionieristica: Silvio Berlusconi. La loggia P2 era una cosa seria. La loggia Ungheria agitata dall’avvocato Pietro Amara è invece il retrobottega di una farmacia dell’Ottocento, dove piccoli notabili consumavano il loro tempo nelle gelosie e nella scelta di chi tra di loro avrebbe fatto il sindaco. Poi arrivarono i partiti.


Quanto sta avvenendo in questi giorni misura la distanza passata con gli eventi di quarant’anni fa. All’epoca il sistema politico fondato sui partiti era ancora solido. Ma il sistema repubblicano reggeva ancora, non soltanto per una questione di anticorpi democratici. Era un pieno: un pieno di partiti, sindacati, Chiesa, formazioni intermedie, salotti finanziari, poteri editoriali. E piazze. E urne, piene anche quelle.


Questi quarant’anni ci raccontano un’altra storia. Un’alternanza tra vuoti e pieni. Il vuoto della politica che diventa progressivamente vuoto della rappresentanza, della produzione, della cultura, in cui si infiltrano le lobby, i gruppi di pressione legittimi ma anche i poteri criminali e mafiosi. Oggi siamo arrivati al punto finale del processo. Il lungo inverno della pandemia ci restituisce un vuoto di classe dirigente, l’opposto dell’occupazione del potere da parte dei partiti denunciata per decenni, tornata a svolazzare come un fantasma dopo il caso della presunta censura della Rai subita da Fedez al concertone del primo maggio.


I partiti restino fuori dalla porta. Fuori i partiti dalla Rai. L’hanno ripetuto fino alla nausea i capi dei partiti vecchi e nuovi, da Enrico Letta a Matteo Salvini. Perfino quel Giuseppe Conte che vorrebbe far risorgere dalle ceneri il Movimento 5 Stelle e che nominò gli attuali vertici Rai durante il suo primo governo, da presidente del Consiglio, quando i gialloverdi si spartirono le cariche principali: alla presidenza di viale Mazzini, figuriamoci, c’è ancora un sopravvissuto di quella stagione appassita, l’oggetto non identificato, il leghista-putiniano Marcello Foa. Ma la vicenda Fedez-Rai non ci racconta dell’occupazione dei partiti, semmai della loro impotenza. Per qualche giorno la politica italiana si è divisa tra sostenitori di Fedez e sostenitori dei comici Pio e Amedeo. Non è solo la riaffermazione della subalternità dei politici allo star system, è qualcosa di nuovo. Gli influencer fanno politica e i politici si affannano per diventare influencer. Con tutti gli effetti collaterali che questo comporta: semplificazione dei messaggi, bianchi contro neri, trasformazione dei lettori e degli elettori in follower, le tribù che si sostituiscono alle identità politiche e ai partiti.


La lottizzazione della Rai, un tempo, era lo specchio delle diverse culture che riempivano il Paese: cattolica e non solo democristiana, comunista, socialista, laica, liberale. Al loro posto ci sono le filiere personali, le fazioni, i gruppi informali, le bande di viale Mazzini che alla vigilia delle nomine Rai si travestono da partito per simulare una appartenenza politica che non esiste. Così al governo Draghi toccherà scegliere o una soluzione interna sbiadita o un commissariamento dall’alto della più grande azienda culturale, il servizio pubblico dell’informazione, mentre i partiti nomineranno i loro famigli, pescati in altri retrobottega.


La stessa situazione si ripete, in forme più gravi, nella guerra interna alla magistratura. Il Sistema raccontato da Luca Palamara fotografa, a ben vedere, lo sfarinamento del sistema delle correnti di appartenenza ideologica e la loro mutazione in tribù. Dove gli odi personali, le invidie, le rivalità, le frustrazioni, i livori galoppano a briglia sciolta senza più nessun freno. Un magistrato di Milano consegna a un componente del Csm, per di più del prestigio di Piercamillo Davigo, un fascicolo secretato, lamentando l’inerzia dei suoi superiori, un anno dopo dai cassetti del dottor Davigo, nel frattempo costretto a lasciare il Csm per sopraggiunta età pensionabile, quei dossier escono in direzione delle redazioni di alcuni quotidiani. In questa guerra per bande si infila l’avvocato Amara con il suo dossier Ungheria con i suoi nomi pescati a caso. Della P2 è simile il metodo, ma in un contesto di meschinità che è la nuova emergenza democratica. Di avvocati falliti, di costruttori senza costruzioni, di faccendieri senza faccende.
La crisi della democrazia è nell’assenza della politica, non più nella sua soffocante onnipresenza. È in un Paese che ha smesso di produrre e di costruire classe dirigente estraendola dai giacimenti della partecipazione che un tempo si chiamavano partiti e che non ci sono più.


Fuori dalla politica è stato chiamato tre mesi fa il nuovo presidente del Consiglio, Mario Draghi. Fuori dalla politica si stanno cercando i candidati alla successione di Sergio Mattarella: ancora Draghi, la ministra della Giustizia Marta Cartabia, perfino Mattarella fu scelto come giudice costituzionale e non come parlamentare e ministro di lungo corso. La politica, di centrodestra e di centrosinistra, fatica a trovare al suo interno i candidati per la guida delle principali città italiane che andranno al voto in autunno. E fatica a trovare le parole d’ordine su cui dividersi e ricomporsi. Negli Stati Uniti il presidente Joe Biden ha presentato un bilancio dei suoi primi cento giorni da stropicciarsi gli occhi, dal punto di vista progressista e di una sinistra sociale attenta alle disuguaglianze: intervento pubblico per rilanciare la crescita, rialzo delle aliquote sui redditi più alti, guerra ai paradisi fiscali, assegni familiari, parità di salario per uomini e donne, istruzione pubblica e gratuita fino a 17 anni, rivoluzione verde, piano infrastrutture.


Sono titoli da riempire di contenuti. Ma sono anche i capitoli di un programma riformista che in Europa non c’è e in Italia ancora meno. Approvare il ddl Zan è il minimo che si possa chiedere, sulla lotta alle discriminazioni non ci dovrebbero essere divisioni di destra e di sinistra, è una questione che viene prima della politica. Ma proprio per questo il ddl Zan da solo non basta a costruire l’identità di una forza politica di sinistra. Serve un’identità, un pensiero, un progetto, una idea di rappresentanza sociale. Quella che Biden individua con una sola frase: «Questo Paese è stato costruito dal ceto medio». Perché altrimenti hai l’ossatura, lo scheletro, di un progetto riformista, il Pnrr. Ma non hai la carne e il sangue e neppure l’intelligenza e il cuore. Nell’Italia del milione di posti di lavoro in meno nell’ultimo anno e di Luana D’Orazio.


In questo contesto l’equilibrio democratico resta affidato all’inquilino del Quirinale. Il 2 giugno 1946 gli italiani con il referendum preferirono la Repubblica alla monarchia, 75 anni dopo il sistema si affida a un presidente che è sempre più un monarca repubblicano. Monarca repubblicano è stato Giorgio Napolitano, monarca repubblicano a suo modo Sergio Mattarella, monarca repubblicano sarebbe Mario Draghi. Ma tra il monarca e il Paese, tra il re e il retrobottega dei piccoli Amara non è rimasto nulla. Lo spazio è vuoto. È lo spazio della politica.