Inchiesta / Tesori nascosti

Arte trafugata al Metropolitan Museum di New York: nel museo statunitense oltre mille opere rubate anche in Italia

di Paolo Biondani e Leo Sisti   20 marzo 2023

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Nel suo catalogo compaiono 1.109 statue, vasi e reperti archeologici che appartenevano a collezionisti e mercanti incriminati o condannati per furti e ricettazioni. Più di 300 sono esposti. L’inchiesta dell’Espresso con il consorzio Icij e altre testate internazionali

Oltre mille opere presenti nel catalogo ufficiale del Metropolitan Museum di New York nascondono una storia giudiziaria imbarazzante: a possederle in passato erano collezionisti o mercanti che risultano incriminati o condannati per presunti furti e traffici clandestini di reperti archeologici e preziosi pezzi d’arte antica. Su un totale di 1.109 opere di provenienza sospetta, ben 309 sono tuttora in mostra nelle sale del prestigioso museo americano. E più di 800 erano di proprietà di un unico mediatore internazionale, che era stato indagato in Italia, ma è stato salvato dalla prescrizione.

A svelare questi retroscena del mercato mondiale dell’arte è un’inchiesta giornalistica chiamata Hidden Treasures (Tesori nascosti), durata cinque mesi e coordinata dall’International Consortium of Investigative Journalists (Icij) in collaborazione con L’Espresso (in esclusiva per l'Italia), il sito investigativo Finance Uncovered e altre testate internazionali. Una ricerca che solleva pesanti dubbi sulle procedure di verifica e controllo del Met, considerato il più importante museo americano, con le sue gallerie piene di tesori provenienti dall'Italia e da molte altre nazioni, dalla Grecia all’Egitto, dall’India al Nepal, dal Medioriente alla Cambogia. Collezioni che richiamano schiere di appassionati e influenzano molti altri musei in tutto il mondo.

Un collezionista di New York, Jonathan P. Rosen, è il «mister 800» di questa storia. Professione: banchiere. E investitore immobiliare. Segni particolari: ricchissimo. Il suo nome è ripetuto molte volte nelle 1.500 pagine della sentenza del tribunale di Roma che alla fine del 2004 ha condannato un suo fornitore italiano, Giacomo Medici, come uno dei più grandi trafficanti internazionali di reperti archeologici trafugati. Con la sua Atlantis Antiquities di New York, il banchiere Rosen si mette in società, negli anni ‘80 e ’90, con Robert Hecht, altro raffinato esperto d’arte e mercante americano. La sentenza ricostruisce i primi affari italiani di Rosen. Nel 1987, in particolare, la sua società cede al Getty Museum della California, per 80 mila dollari, un tripode etrusco, insieme a un antico candelabro di bronzo da 65 mila, dichiarando che erano stati esportati legalmente dall’Italia e quindi acquistati regolarmente due anni prima a Ginevra. Sono bugie clamorose. I due reperti, come si accerta nelle successive indagini e processi, erano stati rubati dalla collezione di famiglia del marchese Guglielmi.

I due soci americani, Rosen ed Hecht, vengono quindi indagati nel 1997 dalla Procura di Roma per furto e traffico internazionale di opere d’arte. Con l’italiano Medici, secondo l’accusa, formano un trio specializzato nel business dei reperti archeologici. In primo grado, nel marzo 2005, il giudice di Roma Guglielmo Muntoni, al termine di un processo svoltosi con rito abbreviato, ha condannato Medici a 10 anni di reclusione: una pena poi ridotta in appello a 8 anni e quindi confermata in via definitiva dalla Corte di Cassazione.

Sempre il giudice Muntoni, in udienza preliminare, si è espresso sulle posizioni di Hecht e della ex curatrice delle antichità del Museo Getty, Marion True, che erano accusati di associazione per delinquere e ricettazione di beni archeologici trafugati da tombaroli. Il 7 luglio 2005 li ha rinviati a giudizio davanti al tribunale di Roma. Il processo, lentissimo, si è chiuso diversi anni dopo con un proscioglimento all’italiana: entrambi, tra il 2010 e il 2012, hanno ottenuto la prescrizione dei reati.

Quanto a Rosen, il fornitore del Getty non è mai stato giudicato, come ha spiegato all’Espresso lo stesso giudice Muntoni, per la stessa ragione: «A differenza di Hecht e True, il signor Rosen era stato incriminato solo per ricettazione, non per associazione per delinquere. Gli episodi a lui attribuiti risultavano commessi prima del 1987 e, quindi, erano vicinissimi alla prescrizione già quando era stato aperto il procedimento a suo carico. Per questo motivo, Rosen non è mai stato rinviato a giudizio e di conseguenza non è stato sottoposto al processo». Intanto il tripode e il candelabro che risultavano trafugati sono stati restituiti dal Museo Getty all’Italia.

In passato Rosen era stato chiamato in causa anche per un altro scandalo, che riguarda 10 mila antiche tavolette mesopotamiche, donate dalla sua famiglia alla Cornell University. Era stato il Los Angeles Times, nel 2013, a ipotizzare, citando il parere di alcuni esperti, che quei reperti fossero stati saccheggiati dall’Iraq dopo la prima guerra del Golfo del 1991. Sul caso aveva aperto un’indagine la procura federale degli Usa. Alla fine, le tavolette sono state restituite a Baghdad. Rosen, tramite un avvocato, ha precisato che le tavolette erano state «acquistate legalmente» e che «nessuna prova di illeciti» era mai emersa dall'inchiesta americana.

Ma c'è anche un altro personaggio italiano collegato alla società Atlantis Antiquities di Hecht e Rosen: è Gianfranco Becchina, un mercante d’arte di Castelvetrano. Che ha fatto diversi affari trattando personalmente con Hecht. L’Espresso ha pubblicato il 29 gennaio scorso un primo articolo («Ruba l'arte e mettila al museo») che ha rivelato, grazie al parere di alcuni archeologi, come almeno sette opere di provenienza furtiva, ora ritrovate al Met, provenivano dalla sua galleria svizzera, chiamata Galerie Antike Kunst Palladion. In questi anni Becchina è stato bollato dalla Commissione antimafia presieduta da Rosy Bindi come un uomo d’affari «vicino sia alla famiglia mafiosa di Campobello di Mazara sia a quella di Castelvetrano», che è risultata «attiva nel commercio illecito di reperti archeologici provenienti da scavi clandestini nell'area di Selinunte», con «interessi facenti capo a Matteo Messina Denaro e, prima ancora, a suo padre Francesco». Becchina si è sempre proclamato innocente. Ma per gli stessi presunti legami si è visto sequestrare il patrimonio dai giudici del tribunale delle misure di prevenzione. 

Questo allarme viene ora confermato ai giornalisti di icij anche da Bruce McNail, ex partner di Robert (Bob) Hecht, fornitore del Met fin dagli anni ’50: «Non penso che Bob rivelasse in modo specifico al museo da dove provenivano quelle cose. Mi chiedete se io sapevo che arrivavano da siti illegali? No, ma lo intuivo». McNail, che oggi è pentito di quegli affari, fa dichiarazioni ancora più esplicite sui fornitori iniziali di quelle opere d’arte, in Italia e Turchia: «È un business gestito dalla mafia, bisogna stare molto attenti. Questa è gente dura. Io mi sono sempre detto: "Se la veda Bob, non voglio avere niente a che fare con persone del genere”».

Parole pesanti. Che trovano riscontro anche in un libro di memorie scritto da Thomas Hoving, direttore del Met dal 1967 al 1977. Nel saggio, Hoving si vanta di aver trasformato il Met in un museo di caratura mondiale per il livello delle opere contenute. Sono stati, racconta, dieci anni di transazioni spericolate. Essere complici di trafficanti, scrive lui stesso, era necessario per il ruolo che ricopriva. Hoving rivela tra l’altro di aver approvato l'acquisto di grandi collezioni di antichità indiane e cambogiane, anche se già sospettava che fossero state contrabbandate. E quando le autorità turche gli chiesero la restituzione di presunti reperti trafugati, l’allora direttore del Met lo ammise, dichiarando al curatore di un museo greco: «Sappiamo tutti che quel materiale è stato scavato illegalmente… Per l'amor di Dio, se i turchi troveranno delle prove, finirà che dovremo restituiremo il tesoro dell’arte greca antica. Questa è la politica. Abbiamo corso dei rischi facendo quegli acquisti».

Secondo Erin Thompson, docente di Art Crime al John Jay College of Criminal Justice di New York, il problema è l’ambizione al primato globale. «Il Met è stato fondato per essere in competizione con i maggiori musei del mondo, quindi voleva avere di tutto». Alla fine del suo mandato al Met, lo stesso Thomas Hoving ha tuttavia cercato di cambiare le pratiche di acquisto. All'inizio degli anni Settanta, ha preso parte alle sessioni dell'Unesco sulle antichità saccheggiate. E si è subito reso conto che «l'era della pirateria era finita». Per questo, poco dopo, ha deciso di modificare i criteri e i metodi seguiti dal Metropolitan Museum per creare le sue collezioni. Nonostante queste riforme interne, però, il numero delle opere di provenienza sospetta è continuato ad aumentare.

I giornalisti di Icij hanno chiesto all’attuale direzione del Met un commento su tutte queste notizie. Il portavoce Kenneth Weine non ha smentito i dati, ma ha risposto così: «Il Metropolitan Museum è impegnato nel collezionismo responsabile di opere d'arte. Si impegna a fondo per garantire che gli acquisti degli oggetti della sua collezione siano conformi alle leggi e alle politiche più rigorose in vigore al momento dell'acquisizione. Le linee guida del collezionismo sono mutate nel tempo. Quindi, sono cambiate anche le politiche e le procedure del Museo. Oggi il Met effettua continue ricerche sull’origine delle sue collezioni, in collaborazione con esperti di tutto il mondo».

Questo articolo è il frutto del lavoro collettivo dei giornalisti dell'Espresso e di altre testate internazionali, in particolare di Spencer Woodman (Icij), Malia Politzer (Finance Uncovered), Delphine Reuter (Icij), Namrata Sharma (Nepal, Free Lance), Emilia Díaz-Struck (Icij), Karrie Kehoe (Icij), Jelena Cosic (Icij), Agustin Armendariz (Icij).