Editoriale

È ora di un patto tra Pd e Lega per il prossimo Presidente della Repubblica. E non solo

di Marco Damilano   14 gennaio 2022

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Il Colle, il governo, la legge elettorale: i due principali partiti cercano l’accordo, mentre si affaccia la variante di un Mattarella bis

«Certo per me, amico, è tempo di appendere la cetra in contemplazione e silenzio/ Il cielo è troppo alto e vasto perché risuoni di questi solitari sospiri. / Tempo è di unire le voci e di fonderle insieme e lasciare che la grazia canti e ci salvi la Bellezza...».

Enrico Letta legge nell’aula di Montecitorio i versi del poeta David Maria Turoldo, che fu prete e partigiano, per ricordare l’amico scomparso, il presidente del Parlamento europeo David Maria Sassoli che portava il suo nome. «Qui, nella casa della nostra democrazia, è tempo di unire le voci, di fonderle insieme...», ripete il segretario del Pd. «Grazie allo spirito di unità che oggi, David, hai consegnato a quest’aula». Dopo Letta parla il capogruppo della Lega Riccardo Molinari: «Indipendentemente dal pensiero di ognuno di noi, quando nell’attività politica c’è qualcuno che davvero crede in quello che fa, in quello che dice, nelle misure che mette in campo, è un vantaggio per tutti, anche nella differenza delle posizioni... figure come quella di Sassoli ridanno dignità alle istituzioni, ridanno dignità alla politica».

Chiude la commemorazione la leader culturalmente più lontana da Sassoli, Giorgia Meloni: «Quando perdi un avversario temibile, non temibile perché è cinico o disposto a tutto, ma temibile perché è capace e leale, allora sai che stai perdendo una cosa preziosa».

Così, tra i banchi della Camera, per qualche istante, avviene qualcosa di inatteso. Il silenzio. Il rispetto per l’avversario. Un momento di partecipazione sopra gli schieramenti? No, qualcosa di più. L’elogio della politica, della buona politica, la politica pulita e nobile, composto da quei politici di professione che negli ultimi anni hanno fatto di tutto per identificarsi nell’immagine della Casta, obiettivo dell’anti-politica. Hanno bloccato, e ancora ritardano, leggi sui diritti civili e sociali, hanno diffuso cattivi insegnamenti, si sono dimostrati drammaticamente inadeguati a rappresentare la società che li elegge. Ma eccoli, i combattenti di fronti avversi, all’improvviso uniti nel riconoscimento delle virtù di uno di loro, sotto gli occhi del capo del governo, l’ex banchiere centrale Mario Draghi, che la politica l’ha commissariata, quasi un anno fa, con un giudizio senza appello sull’incapacità di questi partiti di affrontare la doppia emergenza sanitaria e economica.

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Un miracolo nel nome di Sassoli, che della buona politica è stato un campione e che infatti non proveniva dal nulla, era arrivato nelle istituzioni europee dopo un lungo cammino, una solida radice familiare, l’associazionismo, il giornalismo. E una cultura politica, il cattolicesimo democratico, che si è rivelata più resistente dei partiti che l’hanno incarnata, a cominciare dalla Dc, e da chi nella Chiesa italiana del cardinale Camillo Ruini, ha provato a soffocarla preferendo i sacrestani scelti per fedeltà alla gerarchia ecclesiastica. Una cultura di rappresentanza della società, in ogni sua piega, e di dialogo con gli altri riformismi.

«Tutti mi dicono: Sassoli sarebbe stato un grande presidente della Repubblica. Ma lo hanno capito oggi che lui non c’è più», confida Letta qualche ora dopo la seduta della Camera, con amarezza. «L’ultima volta che ci siamo visti gli avevo detto: preparati, se ci saranno le condizioni toccherà a te». E poi: «Cosa sarebbe la politica se quel momento di unità non durasse soltanto il tempo di una commemorazione?».

Ma ora è davvero giunto il momento di unire le voci. Il momento dell’unità, nella stessa aula che tra pochi giorni vedrà l’inizio delle votazioni per il tredicesimo presidente della Repubblica, su cui si addensano da settimane manovre, doppi e tripli giochi, ricatti. E il mercato del Grande Elettore camuffato da Operazione Scoiattolo, mosso dall’ultima ambizione di Silvio Berlusconi, che la politica ha sempre comprato, che la politica ha sempre considerato ancella di chi ha il potere dei soldi. «Hanno chiamato anche qualche mio parlamentare», rivela Letta. Che si prepara, in caso di messa alla prova dell’urna di Berlusconi come candidato del centrodestra, all’arma da fine del mondo, la stessa che l’armata berlusconiana mosse contro Romano Prodi nel 2013: disertare la votazione. Per protestare e per evitare che nel voto segreto arrivi qualche aiuto all’uomo di Arcore dalle file del Pd e soprattutto del Movimento 5 Stelle. Così, in quell’aula il momento dell’unità sarebbe travolto dalla massima divisione.

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È lo scenario su cui scommettono gli avvelenatori dei pozzi e i profeti di sventura mentre l’Italia si avvia al secondo anno di stato di emergenza e di pandemia. Con la novità dell’obbligo vaccinale per gli over 50, lo scontro politico sulla riapertura delle scuole, gli stregoni della setta no vax che toccano gli abissi della ripugnanza.

L’abbiamo sempre scritto in questi due anni. Accanto all’emergenza sanitaria, che condiziona gli aspetti più minuziosi della nostra quotidianità, all’emergenza economica, segnata dall’incertezza, nonostante gli ottimi dati di crescita del Pil nel 2021, e dalle disuguaglianze di genere e generazionali, c’è un’emergenza democratica. Massimo Cacciari lo ha ripetuto tante volte sulle pagine de L’Espresso, torna a farlo questa settimana con argomenti che meritano sempre di essere dibattuti. Perché la lotta contro il Covid-19, la gestione degli effetti politici e sociali della pandemia, è una grande questione che ha messo in luce tutte le criticità del nostro Paese. Le spinte di disgregazione, la forza centrifuga, la tendenza alla divisione, tra i territori, le categorie sociali, l’area dei garantiti e l’area della rabbia e dell’esclusione dalle decisioni testimoniata anche dalla diserzione delle urne alle ultime elezioni amministrative.

Non è solo una questione italiana. «Lo squilibrio sempre più evidente tra le intenzioni degli uomini politici e le conseguenze reali del loro operato aveva qualcosa di profondamente malsano e persino malefico: la società, comunque, non poteva continuare a funzionare su quelle basi», scrive Michel Houllebecq in “Annientare” appena uscito (La nave di Teseo). Nel romanzo sono i pensieri di Paul Raison, il consigliere dell’immaginario ministro dell’Economia Bruno Juge, un tecnico prestato alla politica. Ma in Italia la crisi democratica e nazionale ha assunto un valore particolare dopo la fine dei partiti cominciata trent’anni fa, con le inchieste di Mani Pulite. È stata un’illusione pensare che potessero esistere politici senza partiti. Possono prosperare, naturalmente, ma soltanto come sofisticati tecnici del consenso o del potere, non certo come rappresentanti della società.

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L’elezione del capo dello Stato coincide con questo tornante. Dopo due anni di stato di emergenza sanitaria, dopo trent’anni di stato di emergenza politica, senza stabilità e senza respiro democratico. È questa la Variante che impone una scelta all’altezza, oltre il dibattito avvilente di questi mesi e la conta degli ex seguaci di Beppe Grillo pronta a votare in segreto per Berlusconi in cambio di una considerazione del loro curriculum. E la strada della Variante porta ai leader dei partiti principali: il Pd di Enrico Letta e la Lega di Matteo Salvini.

Letta, finora, ha avuto gioco facile nel tenere fermo il Pd, in attesa delle decisioni del centrodestra, in ostaggio dell’ultima follia di Silvio. Berlusconi è il grande alibi che consente a tutti di non scoprire i piani. Ma ora è arrivato il tempo di “fondere le voci”, come prevede la Costituzione e come è necessario, se la politica non vuole auto-affondarsi per l’ennesima volta. In questa campagna presidenziale senza kingmakers, Letta e Salvini, i capi dei due principali partiti, hanno la possibilità di fare l’Accordone - qualcosa di meno del compromesso storico Dc-Pci, qualcosa di più dell’inciucio modello Berlusconi-D’Alema negli anni Novanta - per decidere insieme il nome del presidente della Repubblica, il futuro del governo e della legislatura, la legge elettorale e le riforme istituzionali e costituzionali che erano state promesse nel 2020 insieme al taglio dei parlamentari. Tutto parte, ovviamente, dal nome del futuro inquilino del Colle, che in questo contesto può essere Mario Draghi o, nei piani di Letta ancor meglio, risultare identico al presidente uscente.

La riconferma di Sergio Mattarella, sempre negata dal diretto interessato, è la carta a sorpresa degli ultimi giorni, la variante imprevista dell’elezione presidenziale. Può arrivare dopo giorni di psicodramma politico, votazioni a vuoto, con Berlusconi a caccia di parlamentari in libera uscita come un caporale di giornata, dopo un tragico fallimento della politica. Quanto accadde nel 2013 con la rielezione di Giorgio Napolitano, con la messa in mora di una intera classe dirigente per manifesta incapacità.

Oppure il bis dell’attuale presidente può essere il risultato di una scelta consapevole, responsabile dei partiti, così come lo sarebbe la votazione di Draghi e il ritorno dei segretari di partito nel governo del Paese. Un passo in avanti, che è l’opposto dello scenario del tetro congelamento della situazione,  che si usa fare nella stanza in cui è avvenuto un delitto, ma che è sconsigliabile in uno Stato democratico. Per evitare il passo indietro, di nuovo verso il baratro. Solo a questa altezza si può convincere Mattarella a ripensarci. Non solo in nome di un’emergenza, ma anche per una ragione di sistema. Per cambiare il sistema, e non conservarlo per così com’è, per rilanciare il ruolo della politica vale la pena di un ripensamento presidenziale o di un passaggio senza precedenti come sarebbe quello di Draghi da Palazzo Chigi al Quirinale. Qualsiasi altra soluzione non sarebbe all’altezza. Per questo i prossimi giorni rappresentano una cesura nella storia repubblicana. Il tempo di lasciar passare i sospiri solitari. E di scegliere.