Sanità

Partorirai con dolore: in troppi ospedali si negano i diritti alle neomamme

di Gloria Riva   21 marzo 2023

  • linkedintwitterfacebook

Dopo il caso Pertini il termine violenza ostetrica assume una nuova accezione. L’esperta: «Comunicazione e relazione sono aspetti troppo sottovalutati dal personale sanitario. Serve porre rimedio»

È iniziato tutto con una mamma affaticata: si è addormentata accanto al suo bambino di poche ore di vita, senza accorgersi che il piccolo stava scivolando verso la morte. È accaduto in gennaio, all’ospedale Pertini di Roma. Se le puericultrici del nido l’avessero accudito - questa l’ipotesi della madre - forse il piccolo si sarebbe salvato, anziché insistere sul “rooming in”, cioè la possibilità di tenere a stretto contatto madre e figlio. La Magistratura ha aperto un’inchiesta per accertare le cause del decesso, se ci sia stata negligenza da parte del personale o se si sia trattato di una fatalità. Il caso Pertini ha fatto il giro dei social media e la reazione di tante madri è stata: «Potevo essere io».

Il termine “violenza ostetrica” ha quindi fatto capolino su giornali, Instagram e Twitter ampliandone il significato. Perché se prima del caso Pertini “violenza ostetrica” stava a significare l’eccessiva medicalizzazione del parto, l’abuso di tagli cesarei ed episiotomia (l’incisione per facilitare il passaggio del feto), ma anche le brutalità verbali e gli interventi medicali effettuati senza consenso, «successivamente c’è stato un travisamento. Come se la ricerca di un parto fisiologico, il più naturale possibile, fosse percepita dalle madri quale assenza di attenzione. Come se l’invito a favorire l’allattamento al seno, fosse vissuto alla stregua di un accanimento. Come se il rooming-in fosse un abbandono da parte delle infermiere. Per anni le ostetriche hanno giustamente lavorato sul contatto diretto fra madre e figlio, ma troppo spesso si fermano alla teoria, senza riuscire a sostenere la donna in questo delicato percorso», prova a spiegare quanto è successo Alessandra Bellasio, ostetrica e divulgatrice da 175mila follower.

La cosa più sorprendente è che le neomamme arrivino al parto con l’aspettativa di affrontare «l’esperienza naturale più intima della vita, l’atto di massima potenza del corpo femminile», come ripetono spesso le ostetriche ai corsi di accompagnamento alla nascita, senza sapere che la gravidanza e il parto sono anche un atto politico, da affrontare in punta di diritto, specialmente quando si parla di anestesia epidurale, taglio cesareo, assistenza post parto, diritto alla presenza costante di un caregiver.

Partiamo dal nocciolo duro della violenza ostetrica, che in Italia esiste, eccome. L’Organizzazione Mondiale della Sanità indica in tredici su cento il tasso di tagli cesarei che garantisce il massimo benessere per mamma e bambino. Oltre quella soglia è la salute della mamma e del nascituro a pagarne le conseguenze: da noi il tasso di cesarei è al 31 per cento, il doppio della Francia, con punte del 46 per cento in Campania, con Puglia, Calabria, Sicilia, Sardegna e Lazio tutte fra il 35 e il 39 per cento. Scrive il ministero della Salute nel report Cedap, l'indagine annuale delle nascite, che c’è «un’elevata propensione al cesareo al Sud, nelle case di cura accreditate (44,6 su cento) e nei punti nascita più piccoli». Dieci anni fa l’allora ministro della Sanità, Renato Balduzzi, denunciava le truffe sui parti cesarei, che erano troppi, troppo costosi (85 milioni l’anno sprecati) e fatti per lo più in cliniche convenzionate allo scopo di ottenere un maggior rimborso dal Ssn. Un discorso che potrebbe valere anche oggi. Discorso analogo per l’episiotomia: se al Nord l'incisione per facilitare il passaggio del feto viene effettuata di rado, in Sicilia, ad esempio, è praticata nel trenta per cento dei casi. Risultato: a stento il venti per cento delle donne del Meridione partorisce in modo naturale, soprattutto per una carenza culturale e perché meno che altrove si è diffusa la formazione ostetrica ispirata alle linee guida dell'Oms.

Drammatica l’assenza di dati sull’epidurale: nonostante dal 2012 l’anestesia spinale sia un diritto della donna, entrato a pieno titolo nei livelli essenziali di assistenza, viene spesso negato alle pazienti. In Lombardia gli ospedali che la garantiscono 24 ore al giorno e sette giorni la settimana sono 42, in Veneto sono 21, nel Lazio 15 e concentrati nella capitale, 13 in Campania, otto in Puglia e Piemonte, cinque in Alto Adige, nessuno in Molise, uno in Basilicata. Tutto questo mentre l’Aogoi, associazione dei ginecologi italiani, ripubblica uno studio statunitense, secondo cui l’anestesia epidurale riduce del 21 per cento l’emorragia post parto. Ma ovviamente questa informazione non viene comunicata alle future madri, spesso addestrate «alla maternità come sacrificio». Molti ospedali negano l’epidurale perché questo servizio implica la presenza di un anestesista dedicato ed essendo questa figura professionale merce rara - lo abbiamo imparato durante il Covid, che all’appello mancano quattromila anestesisti - in molti nosocomi semplicemente si dice che «qui non si fa».

La donna, prima di entrare in sala parto, dovrebbe quindi conoscere i propri diritti, dovrebbe aver firmato il consenso all’anestesia epidurale e sapere che cesareo ed episiotomia, in una gravidanza normale, andrebbero applicati solo in caso di reale bisogno, ma molto spesso queste informazioni non vengono fornite. Secondo l’ostetrica Bellasio, il giudizio delle madri sui corsi pre-parto è impietoso: «Da un questionario diffuso fra le mie follower sulla pertinenza e utilità dei corsi pre-parto emerge che molte donne si dichiarano insoddisfatte. Le lezioni favoriscono pratiche di visualizzazione e rilassamento, ma non entrano nel merito, non forniscono indicazioni concrete per l’allattamento e il post parto». È proprio quello il momento più delicato per la madre, che esce dalla sala parto, spesso sfinita, e deve familiarizzare con la cura del bambino e l’allattamento. Nei mesi di pandemia le neomamme sono state spesso lasciate sole ad accudire il bambino e, anche ora che il Covid ha allentato la presa, in molti ospedali persistono restrizioni. Poche sanno che l’accesso ai papà e ai parenti è un diritto e, qualora venga violato, è necessario chiederne il rispetto alla direzione sanitaria. L’attuale generazione di madri proviene da contesti famigliari con una scarsa presenza di neonati, spesso sono figlie uniche e poiché fino agli anni Duemila il latte in formula era la normalità, le loro madri non hanno allattato e non possono essere di aiuto. Questo impedisce alla donna di essere davvero consapevole delle difficoltà del post parto, dei frequenti ingorghi al seno e delle ragadi che spesso accompagnano l'allattamento, per esempio.

«Non essere adeguatamente informate o essere trattate con poco rispetto, in ambito ostetrico, può sfociare in un’esperienza traumatica in cui la donna arriva a rimproverarsi di non aver partorito come desiderava e di non essere in grado di tenere con sé il bambino», spiega Serena Donati, responsabile scientifico del Centro Sorveglianza Ostetrica all’Istituto Superiore di Sanità, che continua: «Al netto della carenza di personale, che non deve essere una giustificazione, l’assistenza deve riguardare non solo la sicurezza e l’efficacia della cura, ma anche la qualità della comunicazione e della relazione, aspetti troppo spesso sottovalutati».

Donati considera la maternità alla stregua di un evento sociale: «Un bene collettivo, che non può essere lasciato alla cura della sola coppia. È verissimo l’antico proverbio africano “Per crescere un bambino ci vuole un intero villaggio” e, perché ciò avvenga, è strategico valorizzare il ruolo dei consultori famigliari. Troppo spesso la donna si affida al proprio ginecologo, che lavora anche in ospedale, pensando che costui l’accompagnerà anche al parto: aspettativa spesso disattesa. Al contrario, dalle indagini Iss emerge che il modello vincente, in termini di organizzazione socio-sanitaria e qualità percepita dalle mamme, è la creazione di un rapporto tra l’ostetrica del consultorio e la madre nel pre e nel post parto, specie per le donne che hanno bisogno di un supporto psicosociale». A proposito di allattamento, Bellasio racconta che «in questi anni le ostetriche hanno svolto un’infinità di corsi di aggiornamento sulla promozione dell’allattamento al seno, in linea con l’Oms, ma non sono state altrettanto preparate a sostenere concretamente la donna nella fase di allattamento», con il risultato che solo il 23 per cento dei bimbi di quattro mesi è allattato al seno, con un grave divario territoriale: si va dal 45 per cento dell’Alto Adige al 16 della Campania. Come se la maternità fosse una questione di “autonomia differenziata”.