Inchiesta

La Sicilia è a rischio continuo. Ma la Destra di governo se la prende col clima

di Enrico Bellavia   4 agosto 2023

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Incendi, blackout elettrici e idrici. L’ennesima emergenza mette a nudo l’inadeguatezza della regione: la campagna antincendio in ritardo, collegamenti stradali precari, reti fatiscenti, aeroporti al collasso. E tra fondi tagliati e progetti bocciati, mentre si straparla di Ponte, anche il Pnrr rischia di essere un’occasione mancata

La terra dell’emergenza salta da un allarme a un altro, in una corsa forsennata a divorare se stessa, le sue risorse e i sussidi che ristorano dopo la tragedia appena consumata. In attesa della prossima. L’estate di fuoco è lo specchio in cui si riflettono tutte le inadeguatezze di una regione «sfigurata per colpa della politica», sintetizza l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, di fronte alle spoglie bruciate di San Benedetto il Moro.

La terra dell’emergenza salta da un allarme a un altro, in una corsa forsennata a divorare se stessa, le sue risorse e i sussidi che ristorano dopo la tragedia appena consumata. In attesa della prossima. L’estate di fuoco è lo specchio in cui si riflettono tutte le inadeguatezze di una regione «sfigurata per colpa della politica», sintetizza l’arcivescovo di Palermo, Corrado Lorefice, di fronte alle spoglie bruciate di San Benedetto il Moro.

La Sicilia si sveglia con gli incendi e si addormenta con le frane. Ha ancora gli eredi dei baraccati del terremoto di Messina del 1908 e quelli del Belice del 1968. Consuma suolo senza ritegno, espone al rischio 320 mila persone su 2.000 chilometri quadrati (Ispra), si ingrassa nel nulla che genera la devastazione. Alimenta un popolo di precari, braccianti dei signori del voto. Li tiene al guinzaglio del ricatto. Li blandisce con la paghetta e pretende consenso nel nuovo feudalesimo imposto da una politica stracciona. Buona a prostrarsi in riverenze al potente capitolino e a far di conto sull’incasso che ne risulterà. Vola a Roma a chiedere stati di crisi per i 60 milioni di euro di danni degli ultimi incendi che hanno mandato in fumo 41 mila ettari di territorio (Legambiente), si lamenta e contratta, alzando il prezzo del disagio, promettendo messi di voti nel granaio popolato di anime smunte.

Eccola l’autonomia siciliana: un’altezzosa scorribanda nel recinto del bisogno. Utile solo alla razza padrona perché raggranelli quel poco che arriva con il contagocce dei trasferimenti. Che aspetta i fondi europei e intanto si fa bocciare per insipienza 31 progetti su 31 relativi ai consorzi di bonifica, gestione acqua per intenderci, e perde 383 milioni del Pnrr. Acronimo e formula magica per un’isola che spreca in tutto: in sanità, in opere incompiute, in atti mancati. E in salvaguardia. Non andrà meglio già che con la scure di Raffaele Fitto su 144 misure per 15,9 miliardi di euro, ne salteranno forse 1,2 per la prevenzione di sismi, alluvioni e dissesto. Perché poi con i boschi bruciati saranno frane a go-go.

Una terra che farnetica di ponti sullo Stretto, appresso a Matteo Salvini, e intanto non ha uno straccio di linea ferrata che assicuri non l’alta velocità ma il minimo sindacale della mobilità. Incapace di imporre a Rfi un servizio decente. Che contrabbanda per Tgv un raddoppio di linea nell’entroterra. Che sta ancora elettrificando la Palermo-Trapani. E da Catania a Palermo costringe a un coast to coast di cinque ore. Qui si subisce il patto di cartello che produce il caro voli senza far molto di più che alzare una flebile voce. Contro Ita. E contro Ryanair che viene dall’Irlanda, stessi abitanti della Sicilia ma qualche marcia in più.

Non va meglio su gomma: strade gruviera e autostrade punteggiate di cantieri infiniti, bitume rabberciato, giunti cedevoli e ponti sgretolati. Morandi e cemento depotenziato. Ad Anas non si chiede, proclami a parte, e dalle imprese non si pretende. La Regione si è fatta pure in casa un consorzio per gestire tratte, messe male come quelle altre, ma intanto ha moltiplicato posti di sottogoverno.

La terra dell’emergenza sconta più di un’ora di buio a testa normalmente (Arera), un record, ma sta nelle tenebre per giorni – 15 mila persone secondo un calcolo a spanne diffuso dalla Regione, meno della metà per il gestore – quando una rete si scioglie sotto il manto dell’asfalto rovente e va in tilt anche quando il suolo non drena più. Mentre Confcommercio chiede i danni anche per questo, la Regione ora attende di girare a E-Distribuzione, ramo Enel, altri cospicui assegni, dopo i primi 50 milioni, perché provveda con denaro pubblico a fare gli investimenti dai quali ricaverà utili sotto forma di bollette. Tanto più che, come sembra, quella che chiamano la «resilienza della rete», quasi vivesse di vita propria, era già cosa fatta appunto in alcuni tratti saltati.

La terra dell’emergenza è tanto generosa quanto indifferente alle ragioni del buon senso. Spedisce, per esempio, 130 vigili del fuoco a fare il corso di caposquadra nel pieno del rischio incendi. E aveva fatto lo stesso anche l’anno passato con altri 70. Pianificazione è parola ostica nei Palazzi.

La Sicilia, a ben vedere, non ha acqua perché ne spreca più della metà tra condutture colabrodo e mafia delle autobotti, che nella penuria si arricchisce. Nella siccità urla al deserto. Sotto lo scroscio dei temporali impreca contro il cielo. Colpa del tempo, della leopardiana natura matrigna. In grisaglia d’ordinanza tutti novelli poeti di Recanati. In passato ha anche costruito dighe senza opere di adduzione, ossia vasche senza rubinetto. Su un totale di 46 invasi ne ha in funzione 22. Gli altri sono utilizzati poco o per nulla. In attesa di collaudo. Così, negli anni passati, ha anche messo solerti funzionari a studiare la tecnica israeliana di sparare alle nuvole per far venir giù qualche goccia.

Intanto respira diossina che si sprigiona non dalle industrie ma dal fumo delle discariche di rifiuti, che sono oro quando non si sa più dove metterli. E li trasporta di qui e di là, alimentando l’indotto della «munnizza». Fabbrica di nuove rendite e monopoli consolidati. Qui dove anche un titolare di discariche private, Giuseppe Catanzaro, era uno dei maggiorenti di Confindustria quando un sedicente costruttore di biciclette della profonda provincia nissena, Antonello Montante (8 anni in appello per associazione a delinquere finalizzata alla corruzione e accesso abusivo al sistema informatico), ne era il numero uno e vice nazionale, governatore ombra al tempo della presidenza di Rosario Crocetta. Tanto trasversale da annoverare tra i suoi amici anche l’allora presidente del Senato Renato Schifani, oggi alla guida dell’Isola.

Nei giorni di Caronte ha preso fuoco anche la quarta vasca di Bellolampo, l’equivalente palermitano della romana Malagrotta, solo che questa domina un pezzo di una città inchiodata intorno al 15 per cento di differenziata. E ha alle falde anche un ospedale. Niente verdure e niente carne a chilometro zero, ha sentenziato il sindaco Roberto Lagalla. Anche su questo è partita la richiesta di ristori che si sommano a tutti gli altri.

La terra dell’emergenza non programma e non immagina, allarga le braccia e fa spallucce. Davanti ai morti e con le strade tappeti di cenere o torrenti in piena alle prime piogge. Quando fuoco e acqua si prendono vite e case. Guadagna le prime pagine dei giornali internazionali, restituisce l’immagine di un paradiso che i diavoli infestano e appestano. Un luogo insicuro con il 40 per cento di disdette, stimano gli albergatori, e 10 milioni di risarcimenti che Daniela Santanchè ha promesso di approntare per i visitatori gabbati dagli eventi. Un posto che i turisti sperimentano nel gorgo di una vacanza da incubo e per i residenti è passione quotidiana.

Un luogo dal quale non si fugge e non si arriva, se un aeroporto da 10 milioni di viaggiatori, Catania, si ferma per un condizionatore che emette scintille. E non riparte se non dopo giorni, mentre un altro, Palermo, è al collasso per fronteggiare il blocco del cugino etneo e gli intrepidi governanti scoprono che gli aeroporti militari, tipo Sigonella, non sono attrezzati per i check-in dei passeggeri civili. Guarda un po’.

La terra dell’emergenza non ha un governo ma contabili delle catastrofi. Tutte prevedibili eppure «improvvise». «Eccezionali» e «inattese». Ha una Protezione civile regina del dopo e mai del prima. Il governatore Renato Schifani discetta di cambiamento climatico come fosse Greta Thunberg ma dimentica di chiedersi cosa abbia fatto lui quando c’era da scegliere. Al tempo in cui la sua stella era in ascesa, l’allora ministro della Giustizia Filippo Mancuso lo bollò come «principe del Foro del recupero crediti», alludendo a una dimestichezza con la parte forse più bieca della professione legale. Tuttavia, neanche quell’esperienza gli gioverà. Il credito qui si è esaurito. E quello politico è inesigibile. Per i berluscones siciliani sono tempi cupi e di esodi incentivati verso altri lidi della galassia destrorsa. Non lo aiuterà stendere tappeti rossi a Salvini, polemizzare con il sindaco di Palermo che pure ha dovuto appoggiare, ingaggiare una querelle con il ministro Adolfo Urso.

Nello Musumeci, chiamato a Roma da Giorgia Meloni a occuparsi di cataclismi, suona lo stesso motivetto dell’imprevedibilità. Gli piace parlare della Sicilia come vittima di una «tempesta perfetta». Se la prende con il caldo torrido come fosse una pioggia di rane quando la meteorologia sta diventando una scienza esatta.

Mentre il primo sole di maggio già infuocava rive, campi e colline, il piano antincendio era ancora in lavorazione. L’assessora regionale al Territorio, Elena Pagana, l’ex grillina folgorata dai Fratelli, sposa dell’ex assessore Ruggero Razza, quello che spalmava i morti Covid, battuta nelle urne e ripescata al governo, farfugliava di mezzi in arrivo e programmi da dispiegare. Ma era solo una montagna di pietose giustificazioni. Come sempre, anche quest’anno la campagna antincendio che l’anno scorso ha bruciato 56 mila ettari di patrimonio ed è costata 22 milioni di cui 5 in lanci aerei, è partita in ritardo, come ha accertato il Pd. Le nuove autobotti, se va bene, arriveranno a settembre. Del lotto di 119 solo 12 sono in collaudo.

Appena tre anni fa Musumeci, che era al timone della Regione, prometteva un riordino degli operai forestali, oltre ventimila nomi che costano 256 milioni all’anno, in una terra che è al quattordicesimo posto in Italia per patrimonio boschivo, 381 mila ettari, e al primo per roghi. Avevano anche ordinato dei droni, un’inezia da 200 mila euro tra mezzi e affidamenti per istruzione e ore di impiego. Ma sono inadatti a volare al buio, hanno poca autonomia, precipitano al primo refolo e soprattutto hanno una gittata modesta: per controllare gli incendi hanno bisogno dell’uomo in prossimità delle fiamme. Praticamente inutili, ha scritto il M5S.

Gli operai siciliani, venti volte quelli della Lombardia, lavorano a singhiozzo: 151 giorni, 101 giorni, 78 giorni. Se fossero impiegati a tempo pieno sarebbero 7.000, ma la massa di manovra si ridurrebbe e, fuori dalla trappola dell’ingaggio, Spartaco spezzerebbe le catene.

In seimila sono addetti all’antincendio, il resto dovrebbe occuparsi di rimboschimento e prevenzione. Da trent’anni sono appesi alle chiamate al lavoro, per il resto provvede l’Inps, hanno un’età media di 55 anni. Nel pieno del pericolo li vedi ramazzare o fronteggiare il fronte del fuoco con il poco che hanno. Con i mezzi che arrancano sulle mulattiere o si inchiodano in rimessa perché avanti con l’età. Stanchi di venire additati come incendiari, si inalberano a vedersi tirare dentro agli oscuri interessi dietro ai roghi.

C’è anche qualcuno di loro che spera nell’ingaggio prolungato, ma il grosso dei piromani ha a che vedere con il racket dei pascoli. Non una spectre dei fiammiferi ma allevatori in cerca di foraggio a buon mercato. O agricoltori che preferiscono incassare il risarcimento piuttosto che sbattersi con il prezzo dei prodotti da piazzare in un mercato sempre difficile. Poi ci sono gli speculatori, pronti ad accendere, dopo gli inneschi, le impastatrici, anche a ridosso delle riserve. Dieci anni di divieto a costruire passano in fretta.

La preannunciata riforma Musumeci del settore forestale, allora spacciata per rimedio all’ennesimo scempio ambientale, è rimasta assolutamente lettera morta. In compenso di fronte a un’infornata di altri precari, la Corte costituzionale di recente gli ha bocciato in blocco l’intera variazione di bilancio regionale del 2020. Con una osservazione banale ma necessaria: prima di spendere i soldi bisogna averli. Non un buon viatico per un ministro.

Una settimana prima delle fiamme che con il recente exploit promettono di polverizzare gli ettari andati a fuoco in un’intera stagione, l’Assemblea regionale, il pomposo e vacuo Parlamento siciliano, si è arrovellata sull’ennesimo condono lungo le coste per cancellare il vincolo di inedificabilità assoluta entro i 150 metri dalla battigia. Il tranello è in un emendamento di FdI in commissione Ambiente dove, sotto il nome di riforma urbanistica, si spiana la strada all’ennesima sanatoria.

Nessuna demolizione di quel cemento che occlude la vista del mare, lo stesso che Schifani celebra nelle foto scattate dalla propaganda di regime per celebrare le bellezze dell’Isola e contrastare la pessima reputazione guadagnata in pochi giorni.

Il cemento serve sempre, nutre il consenso e ha molto a che vedere con l’economia rapace che crea ricchezza solo per pochi: unico segno positivo in un affresco fosco, più 9,9 per cento nelle costruzioni ma disoccupazione inchiodata al 16,6 per cento. E che nel reddito di cittadinanza aveva un altro rimedio da record: 37 mila e 600 percettori cancellati. Con la piazza in subbuglio e nuovi stenti, basteranno le promesse di ristoro per scavallare anche le Europee 2024. Nella terra dell’emergenza urge sempre una cabina di regia ma poi si finisce in cabina elettorale.