Il caso

Gli studenti che protestano? Processati e rieducati. Ecco la vendetta sui ragazzi che chiedono di essere ascoltati

di Erika Antonelli e Chiara Sgreccia   4 febbraio 2022

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Se sfili in corteo prima ti prendi i manganelli e poi devi frequentare i corsi sul rispetto dell’autorità. Se occupi poi devi fare la manutenzione agli edifici scolastici (quella che spesso le istituzioni non fanno). Dopo mesi di didattica a singhiozzo la deriva punitiva sugli alunni

Scendono in piazza per una scuola più giusta e la polizia manganella. Chiedono edifici funzionanti ma i dirigenti li invitano a pulire i cortili e spazzare le aule. Dopo due anni di vuoto, gli studenti vorrebbero dialogare con le istituzioni, invece finiscono sotto processo. E nessuno considera le loro richieste. Più che educare, la scuola del 2022 reprime il dissenso.

«Dopo l’occupazione ho ricevuto 16 giorni di sospensione senza obbligo di frequenza. Ho chiesto la conversione della sanzione in un’attività a favore della comunità scolastica anche perché, altrimenti, avrei rischiato di perdere l’anno», racconta Cristian, studente di quinta al Linguistico del Leopoldo Pirelli di Roma. «Il consiglio di istituto ha accettato l’istanza, dovrò seguire un corso sulla legalità e il rispetto delle istituzioni». Gli scappa una mezza risata, amara. «Abbiamo occupato proprio per farci ascoltare dalle istituzioni. E il corso dovrebbe insegnarmi come rispettare qualcuno che invece continua a ignorarmi. Siamo scesi in piazza e le forze dell’ordine ci hanno caricato mentre esercitavamo un nostro diritto».

L’intervento
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Cristian era nella delegazione di studenti che lo scorso dicembre è stata ricevuta dal direttore generale dell’Ufficio scolastico regionale del Lazio, Rocco Pinneri per aprire il dialogo. «Ci siamo presentati al tavolo di confronto con delle richieste specifiche e delle proposte concrete. Per le migliorie nell’edilizia, ad esempio, abbiamo pensato a una collaborazione tra ingegneri e studenti affinché si realizzasse una mappatura dei danni delle scuole nella Regione e non disperdere i fondi. Ma ci hanno detto che tanto era tutto inutile, i soldi non ci sono. Da una parte ci chiedono di abbassare la testa, non avere idee, dall’altra ci menano».

Manganellate e cariche per fermare i cortei organizzati dopo la morte di Lorenzo Parelli, il diciottenne di Udine schiacciato da una trave durante l’alternanza scuola-lavoro. Così ha risposto la polizia, prima, il 23 gennaio, agli studenti di Roma che dal Pantheon si sono diretti verso il ministero dell’Istruzione. Pochi giorni dopo, anche a quelli di Milano, Napoli e Torino scesi in strada per non far passare la morte di un ragazzo come un banale fatto di cronaca e chiedere maggiore sicurezza a scuola e sul lavoro. Picchiati, secondo i racconti dei partecipanti, senza alcuna ragione. «Ora però non dipingeteci come vittime. Se abbiamo preso le manganellate e non ci siamo spostati, è perché vorremmo davvero che le nostre richieste vengano prese in considerazione, per una scuola più equa e meno vecchia, che ci rappresenti», conclude Cristian.

Giovani
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Per Daniele Agostini, ventunenne del Fronte della gioventù comunista di Roma, tra gli organizzatori delle manifestazioni nelle piazze italiane, quanto accaduto è molto grave. «L’ampiezza del fenomeno, presidi in decine di città e una sessantina di occupazioni solo a Roma, dimostra che la necessità di dare una nuova misura alla scuola è molto sentita. É un problema di democrazia». Secondo Agostini c’è in atto un tentativo di arrestare la voglia degli studenti di migliorare le condizioni all’interno delle scuole, sia attraverso gli allontanamenti, sia attraverso l’istituto della conversione delle sanzioni in attività alternative che, però, in pochi casi consistono nella riparazione di danni effettivamente causati dalle occupazioni. «In molti altri la sanzione consiste nello svolgere lavori di pulizia e manutenzione degli edifici. Proprio gli stessi che gli studenti, durante le proteste, hanno chiesto che gli enti preposti prendessero in carico, dopo anni di incuria e abbandono».

La scuola è un’organizzazione che funziona solo se le sue componenti, studenti, docenti, collaboratori, famiglie, interagiscono con rispetto reciproco. Per quanto affaticata dalla Dad e dal contrasto alla pandemia, dovrebbe rimanere «una comunità di dialogo, di ricerca, di esperienza sociale, informata ai valori democratici e volta alla crescita della persona in tutte le sue dimensioni». Così si legge nell’articolo 1 dello “Statuto delle studentesse e degli studenti della scuola secondaria”, il documento a cui fanno riferimento i singoli regolamenti di istituto, elaborati da ogni scuola sulla base della specifica identità educativa. «Il regolamento è espressione della volontà corale. Viene approvato dal consiglio di istituto che rappresenta le diverse parti della comunità-scuola e teoricamente rivisto ogni tre anni, quando si rinnova il consiglio. Però non sempre succede», spiega a L’Espresso Sabrina Casoni, vicepreside di un istituto tecnico marchigiano. «La sospensione è il provvedimento più temuto. Solo in rari casi l’allontanamento supera i tre, quattro giorni». Per irrogare la sanzione viene convocato il consiglio di classe e avviata una seduta durante la quale lo studente espone la sua versione dei fatti. Se fa richiesta, l’allontanamento può essere riconvertito in attività a favore della comunità scolastica.

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«Volontà precisa di punire chi non sta alle regole». Così P., studente del liceo Virgilio di Roma e parte del “Movimento Lupa scuole in lotta”, definisce l’ondata di sanzioni che ha fatto seguito alle occupazioni. Il problema sta tutto in quelle regole, «vecchie e sempre uguali a se stesse», dice. In questo sistema logoro formazione e cultura non sono al primo posto, vengono dopo la disciplina. Che finisce per condizionare il giudizio complessivo sugli studenti.

«I consigli di classe sono una sorta di tribunale, sembrano appartenenti a un’altra epoca. Prima discutono preside, professori e rappresentanti dei genitori. Poi ti fanno entrare e hai la possibilità di difenderti. In seguito, se vogliono, parlano tua madre e tuo padre. Alla fine esci e il Consiglio decide la sentenza. Vince la maggioranza e la composizione della “giuria” è sbilanciata: ci sono due rappresentanti di classe e due dei genitori, però i professori sono in dieci, compreso il dirigente scolastico».

Anche Luca Ianniello, del sindacato studentesco “Rete degli studenti medi”, la pensa allo stesso modo. «È come se il consiglio di classe fosse il primo grado di un vero e proprio processo». Gli altri gradi di giudizio sono l’organo di garanzia scolastico e quello regionale che possono modificare la decisione presa dagli istituti. Sulla sfilza di sanzioni inflitte Luca Ianniello ha le idee chiare: «Devono essere educative e non punitive. In classe si dovrebbe crescere insieme, insegnando la collegialità e il dialogo tra alunni e docenti. In questo modo emerge solo l’idea che l’occupazione sia un oltraggio all’autorità».

Invece, è il segno estremo dell’insofferenza. Gli studenti sono stufi di abitare spazi che sentono non appartenergli e «occupare è un modo per creare una quotidianità che ci piace e sovvertire quella vecchia», dice P. Finora, le istituzioni hanno risposto con la repressione. In cui la punizione “esemplare” deve fungere da deterrente per tutti gli altri. È avvenuto, per esempio, al liceo Mamiani di Roma. Dove a essere sanzionati sono stati solo quattro studenti, tre rappresentanti di istituto e uno dei ragazzi che ha partecipato alle trattative con la dirigenza scolastica e le forze dell’ordine. «La loro sospensione è inutile e ingiusta, hanno voluto scegliere dei capri espiatori costringendoli a riparare alle falle del sistema», racconta Giovanni Loriga del collettivo autogestito del liceo. Chi ha protestato voleva esprimere «il proprio malessere verso un sistema scolastico malato e attirare l’attenzione sulla sicurezza mancante all’interno di istituti e luoghi di lavoro». Per tutta risposta, quegli spazi sporchi e malandati hanno dovuto sistemarli gli studenti. Sospesi per quattro giorni, con un sei in condotta e l’obbligo di affiancare i collaboratori scolastici nella pulizia di aule, cortile e parcheggio.

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La reazione dei compagni è stata chiara: o sospendete tutti o nessuno. Per questo, hanno deciso di aiutare i quattro nelle attività di pulizia. «Quando abbiamo occupato eravamo consapevoli dei rischi a cui andavamo incontro. Quello che non ci aspettavamo, spiega Loriga, è che abbiano individuato solo poche persone. Tre anni fa la dirigenza era passata in ogni classe per chiedere l’autodenuncia, c’era una dimensione collettiva nella punizione. Accanirsi solo su pochi studenti ha l’obiettivo di svilire la partecipazione, facendola passare come scelta imposta solo da alcuni. In realtà, nessuno ha costretto gli studenti e la decisione è stata collettiva e democratica».

Non lo sono state le cariche della polizia. Che hanno colpito i manifestanti in diverse piazze italiane, da Napoli a Milano. Eppure, nonostante le botte, i ragazzi non hanno fatto un passo indietro. E quelle teste ammaccate non hanno nessuna intenzione di piegarsi.